FAREWELL HAMLET


PRIMA NAZIONALE
da The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark di William Shakespeare
traduzione e adattamento Gianluca Bonagura e Elvira Buonocore
ideazione, scene, luci e regia Gianluca Bonagura con Sem Bonventre, Veronica D’Elia, Simone Di Meglio, Taras Nakonechnyi, Carolina Rapillo
aiuto regia Marta Polidoro
disegno sonoro Gianluigi Montagnaro
costumi Anna Verde
produzione falsepartenze teatro
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In ogni mattatoio esistono (almeno) due luoghi.
Due luoghi separati, distinti, all’interno dei quali operai diversi svolgono mansioni diverse, senza mai incontrarsi.
Nel retro, la cosiddetta “zona sporca”, si trova il luogo in cui gli animali vengono sgozzati e la loro carne macellata e fatta a pezzi, davanti invece, nella cosiddetta “zona pulita”, vi è il luogo in cui la carne, ormai pronta, viene confezionata e preparata alla spedizione.
Ogni mattatoio segue la struttura e i principi della catena di montaggio e in quanto tale è una trappola. Un luogo atto a contenere, costringere, trattenere.
Farewell Hamlet - primo studio, costituisce il secondo capitolo della Trilogia degli scherzi infiniti, un lavoro che la compagnia dedica interamente alle opere di William Shakespeare. Dopo la riscrittura e messa in scena per un attore solo de La tragedia di Riccardo III, la compagnia continua il suo lavoro concentrandosi sull’opera più famosa e rappresentata del Bardo, sconvolgendone i tratti e mutandone la forma.
In questa riscrittura, il luogo fisico e quello figurato si fondono. A causare la sovrapposizione dei due luoghi è l’occhio deformato e deformante di Amleto — my mind’s eye — In questa riscrittura Amleto prende coscienza di essere in una trappola, di essere ingranaggio di una macchina di cui è l'unico ad avvertire l'esistenza. In questa logica, i padri non esistono, o meglio, il Re, la Regina, e con essi tutto il loro mondo, appaiono come meri simulacri. Attraverso di essi, Amleto riconosce ciò che gli altri non vedono: c'è altro, c'è un dietro, c'è un luogo in cui tutto viene stabilito, in cui si ammassa lo sporco e la vergogna. Fuori invece ci sono i figli — Ofelia e Laerte — sono loro a ripetere il medesimo schema, ad indossare le maschere dei padri e a reiterarne la logica. Ed è contro di loro che Amleto si scaglia per tentare di rompere la macchina.​​
Lo scontro non è più solo inter-generazionale ma diventa intra-generazionale.
È per questo che a sovrapporsi non sono soltanto i luoghi ma anche i personaggi. La realtà da chiara diventa sfocata, ma è solo attraverso tale sfocatura che si può intravedere l’uscita.
«Il pesce attraverso l’acqua non vede l’acqua».
Il potenziale rappresentativo di questo personaggio, così come di tutta l’opera, sta, a nostro parere, nella possibilità di rendere manifesta la trappola, di rompere quello che Yuval Noah Harari definisce «l’ordine costituito immaginario».
È possibile decodificare il reale? Che ruolo hanno le nuove generazioni nel farlo? È possibile che i più giovani – perché meno legati alla “zona sporca” da una evidente frattura generazionale – possano essere i fautori di un cambiamento? È plausibile che siano loro a scovare il meccanismo? A fare in modo che non si reiteri all’infinito? E in ultimo, è possibile rompere la macchina?